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Frasi Che Feriscono… E Restano: Una Storia Scolastica

Salve a tutti e bentornati in questo mio piccolo angolo di web!

Oggi vi racconto una storia che mi è tonata in mente dopo una chiacchierata con mio padre. E’ un’esperienza che risale ormai a parecchi anni fa. Non tantissimi, in effetti, ma nemmeno pochi. Ma alla fine questo non ha importanza giusto? Si, avete ragione! A chi importa quanti anni sono passati. Tuttavia, spero che mi perdonerete se avrò bisogno di contestualizzare, ma temo che non sapendo la storia sarebbe difficile comprendere perché una singola frase abbia avuto un’impatto così forte su di me.

Come ho già accennato più volte su questo blog ci fu un lungo periodo in cui la mia famiglia ebbe parecchi problemi. Quel periodo andò più o meno dall’inizio della prima media fino alla fine della prima superiore (anno che ripetei proprio a causa delle varie problematiche). Ebbene, questo episodio e tutto ciò che vi racconterò oggi accadde proprio nei tre anni delle medie. La protagonista indiscussa è la mia professoressa di musica. E probabilmente anche un mio errore di valutazione.

Ma andiamo con ordine. Con l’inizio delle medie quella che io conoscevo come “ora di musica” cambiò radicalmente. Al posto dei cori di classe, infatti, mi ritrovai a suonare un flauto dolce di orrida plastica vero finto legno. Per tutti gli anni delle elementari i cori scolastici non erano stati certo la mia passione. Del resto ero sempre quella stonata, quella che non cantava mai abbastanza bene, quella che rovinava il coro. E quella che doveva sempre cantare qualche pezzo da sola così che l’insegnante potesse sentire bene gli errori (e ovviamente anche tutti quelli nella sala). Era una cosa imbarazzante al massimo. Odiavo quei momenti.

Tuttavia ammetto che non avevo mai vissuto le recite con ansia. Ero una bambina realista anche se piena di fantasia. Chi sarebbe venuto a vederci? I nostri genitori (che sarebbero stati orgogliosi di qualsiasi nostro rigurgito musicale) e qualche parente. Magari, per quanto mi riguarda, mia cugina di Torino (che per me è come una sorella) e che avrebbe apprezzato qualunque cosa visto che era anche più piccola di me e non avrebbe potuto distinguere i nostri rantoli da una vera canzone.

Insomma, per me l’ora di musica poteva anche essere stressante in alcuni momenti ma non mi preoccupavo mai del risultato. Del resto perché avrei dovuto? Anche se si fossero rotti i vetri per le mie stonature i miei genitori avrebbero applaudito comunque. Non era una cosa di cui valeva la pena di preoccuparsi anche se cercavo lo stesso di fare del mio meglio (cosa molto diversa per la mia insegnante che vedeva nelle nostre recite la miglior opportunità per fare bella figura. Alla fine ripensandoci oggi mi rendo conto che voleva solo essere notata come qualcosa di più di una semplice insegnante e forse anche per questo nel corso degli anni le ho semi-perdonato tutti i pessimi momenti delle prove).

Ma torniamo a noi. Con l’arrivo della parodia in plastica del flauto dolce le cose cambiarono radicalmente. Per la prima volta avevo in mano uno strumento musicale (anche se oggettivamente imbarazzante) e iniziavo qualcosa di nuovo. Il cambiamento – come tutti i cambiamenti – mi destabilizzò ma tutto sommato non ero scontenta. Il flauto era uno strumento che mi aveva sempre affascinata e tutto sommato l’idea di imparare ad usarlo non mi dispiaceva. Certo ero consapevole del fatto che avevo tra le mani la caricatura di un vero flauto ma alla fine mica dovevo andare al conservatorio no? E poi non avevo mai toccato un flauto in vita mia, non potevo pretendere qualcosa di più.

Le prime lezioni furono molto carine e per certi versi anche innovative. Imparammo le note di base, a leggere le note (anche se sinceramente io non ci capii ma niente) e l’insegnante ci fece anche fare una sorta di esperienza di immaginazione guidata. Per me che avevo problemi famigliari e una grande fantasia furono dei bei momenti e almeno il primo anno le ripropose spesso. Tuttavia con il passare del tempo divennero sempre più rade e mi rendevo conto che ogni volta ci allontanavamo di più dallo standard iniziale per fare alla fine delle lezioni molto meccaniche basate principalmente sull’imparare a memoria qualche canzone e poi starnzazzarla con il flauto.

Nonostante questo per via delle lezioni iniziali cominciai a stimare molto la professoressa di musica. La vedevo davvero come un’esempio, una persona saggia che aveva fatto tesoro di ogni esperienza della sua vita. Questo, però, non influì sul mio rapporto con il flauto. Non ero brava, mi veniva spesso fatto notare da lei e anche qui a volte mi ritrovai a suonare da sola con tutti che potevano ascoltare i miei stridi imbarazzanti. Da quel lato però, posso dire che i miei compagni furono sempre molto educati nei miei confronti e nessuno di loro rise mai o fece battute. Non una cosa da poco. E del resto, devo dire che molti di noi consideravano l’ora di musica come qualcosa di un po’ inutile tanto che con il passare del tempo le persone che dimenticavano il flauto a casa divennero sempre di più.

Tornando a me, però, devo dire che presto la situazione divenne veramente pesante. Personalmente avevo problemi più complicati per la testa in quel periodo e a casa studiare quelle quattro note di flauto era l’ultimo dei miei pensieri. Inoltre, l’insegnante cominciò a prendere la cosa sul personale, dicendo che fingevo di suonare sperando che lei non mi scoprisse tra i suoni di tutti. In realtà non era vero. Io suonavo, probabilmente più piano degli altri perché la mia paura di sbagliare si era incancrenita dopo tutte le volte che lei aveva fatto notare i miei errori, ma suonavo. Mi sentivo molto distintamente, ripensandoci non era nemmeno così difficile udirmi.

Nel frattempo a casa ero stanca e abbattuta per via delle problematiche famigliari e sinceramente davo priorità ad altre materie e soprattutto a quelle cose che mi permettevano di stare bene. Non me ne vogliano le insegnanti di flauto delle medie ma personalmente ho sempre ritenuto che l’ora di musica non lasciasse granché. Alla fine mi rendevo conto che suonare il flauto non sarebbe mai stato indispensabile per la mia vita futura. Del resto non mi era mai importato di intraprendere una carriera musicale, nella vita volevo fare tutt’altro. E inoltre ogni mio tentativo di cercare di far capire alla mia professoressa che la apprezzavo come persona e che anche se non ero un granché a livello musicale stavo facendo quello che potevo veniva sempre travisato o addirittura disprezzato.

Avrei potuto impegnarmi di più a casa? Sicuramente, ma con il carattere che avevo e con l’alta sensibilità e ipersensibilità che continuavo (e continuo) a portarmi dietro non riuscivo davvero a concentrami anche sul flauto. Del resto c’erano materie a cui dovevo per forza prestare più attenzione (del resto il voto di musica veniva a malapena preso in considerazione in pagella) e inoltre sapevo che dovevo preservare la mia salute mentale. Ero piccola ma non così tanto da non caprie che il mio modo di sentire e percepire le cose era diverso da quello degli altri. Avevo bisogno dei miei spazi e di pensare prima di tutto alla mia salute. Veniva prima quella e in quel momento – mi dispiace dirlo – il resto passava in secondo piano. Anche la scuola. E in particolare quelle materie che, lo sapevano tutti, non venivano tenute in considerazione neppure dagli altri insegnanti.

E’ brutto da dire ma alla fine nella vita bisogna capire quali sono le proprie priorità. La mia era la salute e andare almeno decentemente nelle materie principali visto che soprattutto in inglese e matematica avevo molta difficoltà. Così gran parte del mio tempo potevo dedicarlo a ciò che mi faceva stare bene come scrivere ed esplorare un primissimo web. Per musica studicchiavo qualcosa qualche volta ma niente di più. In fondo i miei sforzi non erano mai stati calcolati quindi alla fine decisi semplicemente che non valeva più la pena di investirci tempo.

Ormai ero terrorizzata dalla lezione di musica, avevo il batticuore prima di ogni lezione e già sapevo che mi sarei beccata qualche altro apprezzamento misto pregiudizio (non ha mai pensato che potessi star male, pensava semplicemente che fossi una pigra nullafacente e un giorno me lo disse anche. Io, dal canto mio, non le spiegai mai niente visto che le poche volte che avevo provato dirle due parole su qualsiasi argomento ero stata respinta in malo modo). Così cominciai a dimenticare il flauto sempre più spesso seguendo un po’ di compagni che una volta si e una pure dimenticavano lo strumento.

Piccola Chicca: A qualche sfortunato (se non sbaglio anche a me una volta) provò anche far utilizzare un vecchio flauto raccattato da un cassetto e usato da chissà chi prima di noi ma dopo un apio di tentativi forse si rese conto anche lei che non era particolarmente igienico visto che lo pulivamo solo con un fazzoletto asciutto.

In ogni caso, nonostante lei mi avesse ormai etichettata come una sfaticata, continuai, non so per quale motivo a stimarla. Probabilmente ad ingannarmi furono i bei discorsi che faceva in classe. La cosa incredibile è che erano quasi sempre in sintonia con i miei pensieri e i miei valori. Per tutti i tre anni quindi rimase per me come su un piedistallo. Nonostante tutto era la mia insegnante preferita.

Fu per questo motivo che, in seconda media, decisi di aderire ad un suo progetto. Aveva dato il via, insieme ad altri ragazzini e a qualche adulto, ad un qualcosa che non ricordo bene per migliorare la città. Ero contentissima ma dopo due volte mi resi conto di una cosa: nessuno ci avrebbe mai calcolati. Eravamo soltanto una mini organizzazione fatta da qualche adulto raccattato qua e là e una serie di adolescenti con tanti sogni ma zero strumenti. Lei aveva parlato di un progetto che avrebbe potuto davvero cambiare qualcosa. Ma la verità era che non c’era nessun progetto. Niente. Alla fine non er altro che un’attività extracurriculare come le altre. Carina, forse a suo modo utile, ma non certo in grado di cambiare qualcosa.

Ricordo quei due pomeriggi come qualcosa di strano. Eravamo disorganizzati, passavamo da un tavolo all’altro senza nessun criterio, non avevamo idea di cosa avremmo fatto o potuto fare. Ora, non dubito che la mia professoressa fosse partita con tutte le buone intenzioni del caso ma ricordo che compresi subito che quello era un posto dove ci si poteva giusto accontentare di sognare. Eravamo una banda di ragazzini (oserei dire ancora un po’ bambini) e lei parlava di presentare questo progetto inesistente a qualcosa come il comune o almeno la circoscrizione. Mi resi subito conto che nessuno ci avrebbe tenuto in considerazione e il tutto si sarebbe rivelato solo una grande perdita di tempo. Inoltre quando provai a presentare una mia idea ovviamente non venne presa in considerazione (anche se col senno di poi quella costruzione che secondo me non aveva senso fare si è davvero rivelata inutile).

Ma tornando a noi, mi resi subito conto che alla fine avrei perso tempo e che anche l’ambiente non faceva per me. Così decisi di andare a dire alla prof che non avrei più preso parte agli incontri pomeridiani. E fu l’ che mi disse la frase a cui mi riferivo nel titolo: “per me va bene, ma se continui così nella vita non combinerai mai niente”. Ci rimasi malissimo. Mi aveva detto questo per cosa esattamente? Perché avevo deciso di non prendere più parte al suo progettino improvvisato?

Se non ricordo male mi disse che secondo lei avevo mollato subito. Può darsi, ma io sono fatta in un certo modo. Non faccio mai qualcosa in cui non credo. E io non credevo che in un mondo di adulti con fior di competenze in ambito architettonico i nostri piccoli disegnini e progettini sarebbero stati presi seriamente in considerazione. Del resto non avevamo, appunto, le competenze per poter presentare qualcosa di concerto e veramente utile. Magari ci avrebbero dato un contentino, qualche piccolo trafiletto su giornali non troppo letti e un paio di belle parole per l’impegno… ma non avremmo realizzato niente. Come dicevo, sono sempre stata una persona piena di fantasia ma comunque molto realista.

Quel giorno me andai amareggiata. Nonostante fossi consapevole che lei mi aveva giudicata senza sapere, che avevo le mie ragioni per non voler perdere tempo e che non sarebbero stati i miei strafalcioni con il flauto a definire chi ero e cosa avrei fatto nella mia vita fu comunque un colpo. Perché per me quella professoressa era un’esempio e quindi le sue parole mi pesarono ancora di più. Da quel momento, oltretutto, la prese ancora più sul personale e le sue lezioni diventarono per me fonte di vera e propria angoscia. L’anno successivo lo passai a fingere di aver dimenticato il flauto, ormai stufa anche solo di pensare di provare.

In quei tre anni avevo imparato a fare fotomontaggi (e se ci ripenso erano fatti veramente bene), montare video (anche se con un programma semplice e solo con immagini ed effetti, ma per una ragazzina di tredici anni non era affatto male come risultato) mi aggiravo su internet con la stessa naturalezza con cui mi muovevo nella mia stanza e avevo anche scritto una paccata di racconti che non erano la Divina Commedia ma mi avevano fatto capire che comunque non scrivevo male per la mia età. Insomma, le capacità non mi mancavano quindi consciamente sapevo di non dover dare peso alle sue parole.

Tuttavia ogni colta che facevo un’errore, ogni volta che sbagliavo qualcosa la sua voce tornava a farsi sentire. E fu così per un paio d’anni. Il terzo anno quindi passò tra l’ansia delle sue lezioni e dei suoi pregiudizi mentre dimenticavo puntualmente il flauto. Per quanto riguarda il progetto non se ne parlò mai più e deduco quindi che si sia concluso con un nulla di fatto.

Poi le medie finirono. Noi compagni ci salutammo, facemmo l’esame (di cui ho un bellissimo ricordo) e finalmente potei mettere via il tanto odiato strumento starnazzante. Lo salutai con vero e proprio sollievo anche se mi dispiacque lasciare la scuola e sì, anche quell’ insegnante che con i suoi bei discorsi aveva comunque continuato ad incantarmi. Andai al liceo e il primo anno fui bocciata mentre le sue parole risuonavano nella mia mente insieme a quelle dei bulli.

Tuttavia quell’anno di bocciatura fu terapeutico per me. Scelsi, come sempre, di mettere la mia salute mentale al primo posto e ne ricavati comunque grandi benefici. In un mondo dove internet diveniva sempre più vasto la mia passione iniziò a crescere. Ora so che stavo ponendo le basi per quella passione che mi avrebbe portato a scegliere il mio lavoro attuale. Inoltre cambiare classe mi permise si salutare quei bulli che mi avevano ammorbato le ore passate a scuola. Quindi no, non mi rammarico. Non fu un anno perso.

Tra passioni, poesie e sogni i problemi famigliari si risolsero, tornò il sereno e io ripresi la scuola con rinnovato entusiasmo. Ed è qui che il mio legame con quell’insegnante che avevo messo su un piedistallo giunge alla fine. O meglio, giunge al primo passo che involontariamente una mia amica mi fece fare verso la rivalutazione di tutta l’esperienza, della posizione in cui l’avevo messa e del conseguente peso che avevo dato alle sue parole. Nei miei ricordi accade alla fine del secondo primo anno ma probabilmente mi sbaglio perché era trascorso parecchio tempo ora che ci penso bene. E’ molto più probabile che fossi in terza.

Comunque.. io e questa mia ormai ex amica stavamo camminando sui marciapiedi della rotonda quando ecco che mi sembra di vedere la mia ex insegnante di musica. Era sempre sulla stessa bicicletta, aveva ancora i capelli ricci al vento come sempre… ma ebbi dei dubbi perché mi sembrava veramente molto invecchiata. Forse mi stavo sbagliando? In fondo non era passata un’eternità. Eppure i capelli erano già bianchi e il volto che io ricordavo luminoso era spento, velato da un’espressione triste e pieno di rughe. Sembrava che per lei quei pochi anni fossero stati un decennio. Mi venne quindi il dubbio che non fosse lei e siccome la mia amica aveva frequentato le medie nella mia stessa scuola e l’aveva avuta come insegnante le chiesi se potesse effettivamente essere lei. Mi confermò che lo era.

Ricordo che mentre si avvicinava ebbi l’impulso di provare a salutarla ma la mia mano si mosse appena per il mio timore nei suoi confronti… e lei non mi notò. E fu un bene. Parlando con la mia ex amica le dissi infatti che per me era stata comunque la mia professoressa preferita e ricordo che lei mi rispose che era molto sorpresa e che nella realtà nella sua classe (formata un anno dopo la mia) l’avevano sempre considerata… usò una parola molto forte che se non sbaglio era “patetica”. Per me fu come un’epifania. Di colpo cominciai a ripensare tutta la storia e mi resi condo del fatto che ero stata io a sopravvalutarla. Probabilmente l’avevo messa su un piedistallo quando nella realtà era una persona che non aveva niente più di nessun’altro… e forse era pure un po’ ipocrita.

Mi resi anche conto che era stato proprio per la mia stima che le sue parole continuavano ad avere un peso. Ero stata io dargli quel peso. La persona saggia e super realizzata che avevo sempre visto era una mia costruzione che non aveva quasi niente di oggettivo. Mi faceva paura, non aveva mai creduto in me né le importava dei miei sforzi o di me in quanto persona. E no, non era mai stata sulla mia stessa lunghezza d’onda. I suoi discorsi erano bellissimi, ma alla fine avevano poco riscontro nella realtà. Mettendo insieme il punto di vista della mia amica e il mio (entrambi agli antipodi) mi ritrovai con un quadro più veritiero di quella persona che avevo messo su un gradino troppo alto.

La mia professoressa era una persona come me e come tutti gli altri. Né migliore né peggiore di nessuno. Aveva i suoi difetti, le sue piccole ipocrisie, un bel po’ di grandi sogni che probabilmente non si erano realizzati. E sicuramente il suo lavoro di insegnante di musica – per lei che, come sapevo, suonava davvero il flauto traverso – doveva essere molto frustrante. In fondo aveva poche ore nelle quali la maggior parte delle persone non la teneva neppure in considerazione. La sua materia non era nemmeno considerata una vera materia e lei se ne rendeva conto. E se con me ne aveva fatto una questione personale probabilmente era soltanto perché era frustrata e avevo anche lei i suoi problemi. Inoltre non nego di aver avuto anche io la mia parte di torto. Avrei potuto sforzarmi di più su alcune cose.

Tuttavia la cosa più importante fu che compresi che le avevo dato troppo spazio. Avevo lasciato che la mia stima permettesse alle sue opinioni di intaccare l’idea che avevo di me stessa. Da quel giorno piano piano dimenticai le sue parole e se non fosse stato per questa chiacchierata con mio padre riguardo a quella zona della città probabilmente non mi sarebbe più tornato in mente questo episodio della mia vita. Ad oggi mi rendo conto che sono una persona molto diversa. Quella frase di tanti anni fa non ha più alcun valore e so che la mia professoressa e le nostre vicissitudini sono cose del passato, che nel passato devono rimanere. L’unico motivo per ripescarle può essere solo qualcosa di piacevole come, per esempio, raccontarvi un’altra piccola parte di me su questo blog, tramite questo web che ho sempre amato.

Successivamente ci sono state parecchie occasioni in cui l’ho rivista sulla sua bicicletta. Ci sono stati dei momenti in cui avrei voluto fermarla per salutarla, chiederle allegramente “Salve sono Enrica Masino! Si ricorda di me?” e ascoltare la sua risposta. Chissà se si ricorda ancora di quell’alunna che involontariamente le diede tanto fastidio e chissà se rideremmo ripensando a quei giorni di tanti anni fa. Molto probabilmente si. Nonostante questo, come immaginerete, non l’ho mai fermata. Era sempre super di fretta con quella bicicletta e da quando abbiamo cambiato zona non ho più avuto occasione di rivederla. A volte mi chiedo se lavora ancora in quella scuola. Comunque se mi capiterà un’occasione in questo mondo sempre di corsa tenterò. Penso che dopo tutti questi anni, per quanto possiamo aver avuto i nostri dissapori, scambiare due parole potrebbe solo essere piacevole.

Bene, anche questo post è finito… e voi vi state ancora chiedendo perché l’abbia scritto. La verità è che mi andava di raccontarvi questa storia. E’ un episodio così lontano e di così tanti anni fa… so già che nei prossimi giorni tornerà nella scatola dei ricordi della mia memoria e chissà per quanto tempo ci resterà. Quindi mentre per puro caso ho avuto l’occasione di riportare alla mente questo piccolo periodo della mia vita ci tenevo a metterlo per iscritto qui. A fare in modo che lasciasse una traccia. In fondo questo è Diario Di Viaggio Di Una Blogger Sentimentale e questa vicenda è stata una parte molto importante del mio percorso. Ovviamente a questo punto sono curiosissima di sapere cosa ne pensate voi! Vi aspetto nella sezione commenti. Come sempre vi ringrazio per il tempo che avete dedicato alle mie parole.

Al prossimo post!

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Valeria
1 anno fa

Ecco questo tuo racconto mi ha fatto capire ancora una volta che diamo troppa peso alle parole degli altri, bisognerebbe invece lasciar andare e concentrarsi su noi stessi, su quello che ci piace e sulle nostre qualità caratteriali. La tua insegnante, per come la vedo io, oltre a essere (forse) una donna frustrata, mi è parsa come una soggetta a simpatie ed antipatie e di quelle insegnanti che una volta che si sono fatte un giudizio su un alunno, positivo o negativo che sia, non lo cambiano più. Anch’io ne trovai una così durante la scuola media e quando mi è capitato di reincontrarla l’ho vista con occhi diversi, forse un po pochino di acredine mi era rimasta, ma la vedevo per ciò che era, una donna normale e non più come la prof che mi prese in antipatia.
Hai dimostrato Enrica cara il tuo valore con quello che fai e in cui eccelli, nessuno mai dovrebbe dire a un bambino che non realizzerà mai niente nella vita solo perché non ha voluto continuare a seguire un’iniziativa. Bisogna stare più attenti con i bambini e gli adolescenti, mai minare la fiducia in sé stessi.

Claudia Turchiarulo

Per fortuna non ho mai dovuto suonare il flauto, ma sin dalle elementari ero appassionata di pianoforte e, alla medie, scelsi la pianola.
Mi dispiace per questo tuo rapporto conflittuale con questa professoressa ed è paradossale che tu la considerassi la tua preferita.
Fatico veramente a comprenderti.
In ogni caso sono felice che i suoi giudizi e quelli di qualche compagno stroznetto non siano bastati a fermarti.
Infatti puoi essere fiera della piccola donna che sei diventata.
Anche senza flauto o intonazione. 😉
Un abbraccio.

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